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Fine vita e bioetica tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva.

Englaro, Welby e DJ Fabo. Lo stato dell’arte della normativa italiana.

A seguito della recente “bocciatura” – da parte della Corte Costituzionale – del quesito referendario sulla tematica dell’eutanasia, si è riacceso il dibattito sulla complessa materia del fine vita. Ripercorrendo gli storici casi Englaro, Welby e DJ Fabo – che hanno tanto appassionato l’opinione pubblica, partecipando al relativo dolore – verrà analizzato lo “stato dell’arte” della normativa italiana.

Sommario

1)  Premessa. Il concetto di eutanasia e le questioni sottese.

2)  Eluana Englaro.

3)  Piergiorgio Welby.

4)  La legge 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, c.d. “testamento biologico”.

5)  Fabiano Antoniani (in arte DJ Fabo) e Marco Cappato.

6)  La posizione della Corte Costituzionale in attesa del Legislatore.

1) Premessa. Il concetto di eutanasia e le questioni sottese.

È bene sin da subito chiarire che cosa significhi il termine eutanasia.

Per eutanasia si intende quell’azione od omissione che conduce alla morte anticipata di una persona senza che questi provi alcuna sofferenza. La parola letteralmente deriva dal greco e significa “buona morte”.

Per eutanasia attiva, si intende la morte indotta tramite un comportamento attivo, in quanto il decesso viene raggiunto a seguito della somministrazione di un farmaco da parte di un medico professionista oppure indotta direttamente da parte del soggetto suicidario mediante autonoma assunzione.

L’eutanasia passiva, invece, presuppone un comportamento omissivo, in quanto la morte risulta quale conseguenza della volontaria omissione o interruzione di uno specifico trattamento terapeutico.

Chiarito il concetto di eutanasia, la tematica del fine vita pone la delicata questione bioetica se una data società debba o possa legalizzare il proposito suicidario.

Ovviamente, la questione non si pone tanto con riferimento a quegli individui che, possedendo le piene abilità fisiche, sono capaci di togliersi da sé la vita, ma la questione si pone con riferimento a tutti quegli individui che, incapaci di procurarsi la morte da soli, hanno espresso nel passato o nel presente un compiuto e fermo desiderio di interrompere la propria vita.

Se è vero che si suole dire che l’ordinamento giuridico, pur disapprovandola, non sanzioni giuridicamente la condotta di fallito proposito suicidario della persona abile per ragioni di mera opportunità, resta acceso il sottaciuto interrogativo se esista un diritto alla vita e, conseguentemente, anche un diritto alla morte.

La tematica in questi termini è troppo forte, poiché presuppone una questione di delicata ed intima sfera morale individuale prima ancora che di etica sociale. Pertanto, gli interpreti del diritto hanno spostato il focus dell’attenzione su altre questioni giuridiche e, più precisamente, sulle tematiche del diritto alla salute e del rispetto della dignità umana.

Se i casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby hanno accesso il dibattito sull’eutanasia passiva che presuppone la libera e consapevole scelta del rifiuto di specifici trattamenti sanitari, il caso di Fabiano Antoniani (in arte “DJ Fabo”) ha fatto qualcosa di più, ha fatto interrogare l’intera opinione pubblica sulla delicata tematica dell’eutanasia attiva, mettendo al centro dell’attenzione non più il diritto alla salute, ma se il diritto alla dignità umana, ricavabile dal principio personalistico espresso dall’art. 2 della Costituzione, possa condurre, quando un individuo versi in condizioni di vita intollerabili e quindi non più dignitose, ad un vero e proprio diritto alla disponibilità della vita.

I casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby hanno condotto, nel 2017, all’adozione della legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (“testamento biologico”) riconoscendo, di fatto, in determinate ipotesi, la legittimità dell’eutanasia passiva. Pertanto, ci si domanda se il caso di DJ Fabo porterà, in futuro, ad una qualche forma di riconoscimento dell’eutanasia attiva.


Anche perché, come noto, la Corte Costituzionale sono anni che sta facendo pressioni sul Parlamento affinché, in ossequio ai principi democratici, prenda una decisiva posizione sulla tematica senza che costringa la giurisprudenza ad una continua e costante interpretazione non solo “creativa”, ma decisamente a “macchia di leopardo”, in palese contrasto con i principi egualitari, potendo la soluzione del caso concreto dipendere dalla diversa sensibilità del singolo Giudicante.

2) Eluana Englaro.

La vicenda giudiziaria di Eluana cominciò nel 1999 dopo che il padre, Peppino, nominato tutore legale della figlia interdetta, chiese al Tribunale di Lecco di essere autorizzato a sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiale che assicuravano alla figlia la sopravvivenza su un piano puramente biologico. Peppino chiedeva “il divieto di accanimento terapeutico” in ragione delle condizioni drammatiche e irreversibili della figlia che versava in condizioni di Stato Vegetativo Permanente dal lontano 1992 e, soprattutto, perché tali condizioni erano da ritenersi inconciliabili con le pregresse convinzioni sullo stile di vita e sul concetto di dignità espressi in passato da Eluana.

Il Tribunale di Lecco dichiarò l’inammissibilità del ricorso asserendo che l’indisponibilità del diritto alla vita da parte dello stesso titolare, desumibile dall’art. 579 c.p., incriminante l’omicidio del consenziente, rende inconcepibile la possibilità che un terzo rilasci validamente il consenso alla soppressione di una persona umana incapace di esprimere la propria volontà, anche in ragione dell’art. 2 della Costituzione, che afferma il principio personalistico, a mente del quale l’ordinamento italiano è orientato a sviluppare e a tutelare la persona.

Ma Peppino non si arrese e, a distanza di quasi otto anni dal primo ricorso, il giudizio arrivò al vaglio della Corte di Cassazione che emanò una sentenza destinata a costituire la “stella polare”, punto di riferimento di tutte le future decisioni in materia, poiché affermò che, “ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione e idratazione; su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia, e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.

Il criterio del “best interest”, cui la Corte esplicitamente si riferì, fu quello del rispetto delle aspirazioni, dei desideri e della personalità del soggetto da proteggere. Il “dare voce” anche a chi non sia più in grado di esprimersi, è ritenuto dalla Cassazione una imprescindibile conseguenza del rispetto del principio di uguaglianza. Affermare il contrario, infatti, significherebbe assoggettare la volontà della persona non più in grado di esprimersi a quella dei medici, in palese contrasto con l’art. 6 della Convenzione di Oviedo: “quando, secondo la legge, un maggiore d’età non ha, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, la capacità di esprimere un consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”.

Proprio per questa ragione la Corte ritiene di estrema importanza la ricostruzione della volontà della persona in punto di diritto, giacché è indispensabile che siano riscontrati elementi di prova “chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

In tal modo il rappresentante non sostituisce la propria visione a quella del tutelato, ma “agisce non per l’incapace ma con l’incapace”.

Altro fondamentale punto risolto dalla Corte, inoltre, riguardò l’idratazione e l’alimentazione artificiali che furono definite un trattamento sanitario, cosi come affermato dalla stessa comunità scientifica. Trattamento sanitario che può essere considero accanimento terapeutico solamente qualora, nell’imminenza della morte, l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile. Di conseguenza, tale trattamento sanitario è suscettibile di rifiuto e di revoca poiché deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.

Con il decreto del 9 luglio del 2008, la Corte di Appello di Milano, ricostruita con certezza la volontà di Eluana (grazie anche alle diverse testimonianze delle amiche), autorizzò Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che manteneva in vita Eluana per mancanza della benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno.

Il Tribunale di Udine l’11 gennaio 2010 archiviò la richiesta di imputazione per omicidio volontario nei confronti di Beppino, e dei medici e paramedici, riconoscendo la causa di giustificazione di aver agito nell’adempimento di un dovere, ex art. 51 c.p., per la necessità di superare l’altrimenti inevitabile contraddizione dell’ordinamento giuridico che non può da una parte attribuire un diritto e dall’altra incriminarne l’esercizio.

3) Piergiorgio Welby.

La vicenda di Piergiorgio Welby fu del tutto diversa, poiché soffriva di distrofia muscolare, una patologia altamente invalidante durante il decorso della quale, a seguito di una crisi respiratoria che lo aveva condotto in coma, era stato rianimato e destinato da quel momento a vivere attaccato a un respiratore, macchina che gli insufflava aria nei polmoni.

Nel momento in cui a Piergiorgio venne impossibile svolgere quelle attività che fino a quel momento avevano dato un senso pieno alla sua vita, come leggere, collegarsi a internet e scrivere, in più occasioni e forme, a mezzo sia di comunicazioni diffuse dai mass media, sia con specifico ricorso di urgenza al Tribunale di Roma, aveva chiesto l’interruzione del trattamento sanitario.

In particolare, Piergiorgio chiedeva una sedazione che gli consentisse di non sentire la morte per soffocamento prima dell’effettivo distacco del respiratore. A differenza del caso Englaro, quindi, sarebbe stata necessaria una condotta attiva, come quella dello spegnimento del macchinario respiratorio.

Il Tribunale di Roma negò la richiesta, in quanto riteneva che si trattasse di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento, pur riconoscendo il diritto all’autodeterminazione medica.

Tuttavia, in seguito, Piergiorgio Welby, dopo un prolungato colloquio con l’anestesista, il dott. Mario Riccio, all’esito del quale risultava una lucida e determinata volontà del paziente, ottenne da quest’ultimo il distacco del respiratore, previa anestesia così da non patire il pervenire della morte da soffocamento.

Il Tribunale di Roma avviò un procedimento penale nei confronti del dott. Riccio, imputato del reato di omicidio del consenziente, ex art. 579 c.p.

Il procedimento si concluse nel 2007 mediante l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, ritenuta sussistente una causa di giustificazione come quella dell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p., attestata la corrispondenza dell’operare del medico con quanto richiesto dal paziente e attestata la non eziologia causale della sedazione sull’evento morte, fatto che avrebbe mutato la responsabilità del medico in omicidio volontario, in quanto non corrispondente il fatto a una semplice interruzione di cure.

Ad avviso del Giudicante, la “norma giuridica” legittimante la condotta del medico trova solide fondamenta nell’art. 32 della Costituzione, 2° comma, ove enuncia che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Solo al medico incombe tale “dovere”, in quanto la sua condotta è sorretta da valutazioni di carattere sanitario, nonché orientato e vincolato dal proprio codice deontologico. Di conseguenza, solo il medico è capace di garantire, da un punto di vista tecnico e da un punto di vista dell’osservanza dei principi e dei diritti, il rispetto nel caso concreto dei confini tra l’esercizio di una libera ed informata autodeterminazione del paziente ed arbitrii forieri di violazioni di diritti essenziali, quali quelli in gioco.

Inoltre, la figura del medico è anche fondamentale per la costruzione del presupposto per l'esercizio del diritto da parte del paziente, poiché, informandolo sulle condizioni cliniche e sui possibili trattamenti terapeutici, incide direttamente sul processo di formazione della volontà.

In tal senso, il medico risulta essere titolare di una particolare posizione di garanzia nei confronti del paziente che non può essere offerta da nessun’altra persona, giacché il requisito del consenso informato – sotteso ad ogni pratica terapeutica – presuppone che per essere valido deve essere consapevole.

Il paziente, infatti, può adottare una libera e consapevole scelta – in ossequio al principio consensualistico – solo se pienamente informato sulla propria condizione psico-fisica, delle prospettive evolutive della propria condizione e delle possibili conseguenze frutto delle proprie scelte, altrimenti la sua volontà sarebbe viziata da elementi di conoscenza distorti o mancanti e, conseguentemente, sarebbe non libera.

4) La legge 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, c.d. “testamento biologico”.

I casi Englaro e Welby offrirono una profonda riflessione etico-giuridica sulla tematica del fine vita. Per la parte prevalente dell’opinione pubblica sembra fosse pacifico sin da subito affermare che uno Stato laico debba lasciare liberi i propri cittadini nelle scelte che riguardano la loro sfera più intima, tuttavia, ciò che non soddisfò in alcun modo fu che, nonostante una evoluzione del diritto civile nel senso della progressiva affermazione del principio di autodeterminazione del paziente, la rigidità strutturale del diritto penale e una innegabile impasse legislativa impedirono di dare una risposta convincente nel momento in cui si doveva valutare l’operato del medico che ottemperava alla legittima richiesta del paziente di sospendere le cure che lo tenessero in vita.

Occorre sottolineare che l’esaltazione della libertà di autodeterminazione non significa l’introduzione nel nostro ordinamento né di un diritto a morire né di un diritto all’eutanasia. L’esito dei casi di Welby ed Englaro, caratterizzati dalla mancanza di una disciplina ad hoc, fu infatti quello di “scaricare” sui giudici comuni le decisioni da assumere nel caso concreto, con la conseguenza di future decisioni oscillanti, contraddittorie, confliggenti e, più in generale, di una tutela dei diritti fondamentali “a macchia di leopardo”, in spregio delle esigenze di eguaglianza e di certezza del diritto.


Con quasi dieci anni di ritardo, tuttavia, nel 2017 fu emanata finalmente una disciplina organica che in parte colmava la lacuna italiana sul fine vite, positivizzando la disciplina sulla eutanasia passiva.

Dal 2017, infatti, nella legge 219/2017 è contenuta una puntuale disciplina sul consenso informato, che esalta la relazione fiduciaria tra medico e paziente, anche in considerazione del fatto che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”.

La legge pone al centro il principio di autodeterminazione del paziente, di conseguenza disciplina anche le modalità con cui può essere manifestato il consenso informato ai trattamenti sanitari, che può avvenire con un atto scritto o, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo permettano, attraverso videoregistrazione o qualunque dispositivo che consenta alla persona con disabilità di comunicare.

In ogni momento è consentito al paziente di ritornare sulle proprie decisioni. Il rifiuto (non inizio) o la rinuncia (interruzione) a ricevere trattamenti sanitari può avvenire in ogni momento; inoltre idratazione e nutrizione artificiali sono considerati espressamente un trattamento sanitario.

Al rappresentante legale dell’incapace o del minore è riconosciuto il diritto-dovere di esprimere il consenso informato in luogo dell’assistito. In assenza di dichiarazioni anticipate di trattamento e qualora sorgesse un contrasto tra rappresentante legale e medico curante sulle migliori cure proposte, che il medico ritenga “appropriate e necessarie” per il paziente, la decisione nel “best interest” del soggetto tutelato viene rimessa al Giudice tutelare.

La legge, per giunta, riconosce ad ogni persona maggiorenne – in previsione della propria futura incapacità e dopo aver acquisito adeguate informazioni sulle conseguenze delle proprie scelte mediche – la facoltà di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari e, più precisamente, di esprimere il proprio anticipato consenso o rifiuto su: accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari.

Infine, assume estrema importanza anche la terapia del dolore ed il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure nella fase finale della vita, giacché “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico”.

Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.


5) Fabiano Antoniani (in arte DJ Fabo) e Marco Cappato.

La vicenda di DJ Fabo, che nel febbraio del 2017 ha deciso di determinarsi da solo la morte, è del tutto differente dalle precedenti, in quanto ha spinto la riflessione sulla tematica del fine vita dall’eutanasia passiva a quella dell’eutanasia attiva, vietata dal nostro ordinamento, in quanto potenzialmente sussumibile sotto le fattispecie incriminatrici dell’omicidio volontario, dell’omicidio del consenziente o dell’aiuto al suicidio, rispettivamente ex artt. 575, 579 e 580 del c.p.

DJ Fabo era un ragazzo perfettamente lucido, ma tetraplegico (come Welby), che voleva interrompere i trattamenti sanitari che lo tenevano in vita. Tuttavia, non voleva morire a seguito di una atroce agonia. Pertanto, chiese a Marco Cappato di essere portato in Svizzera affinché egli stesso – da solo – potesse determinarsi la morte, mediante autonoma assunzione di un farmaco suicidario, in quanto ancora riusciva a muovere i denti.

Dopo aver esaudito le richieste di Fabiano Antoniani, a Marco Cappato fu contestato il reato di istigazione e di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. dal quale fu assolto nel 2018 per assenza dei presupposti normativi.

Innanzitutto, non poteva ritenersi integrata la fattispecie della istigazione in quanto DJ Fabo era assolutamente convinto del proposito suicidario ancora prima di conoscere Cappato.

In secondo luogo, fu ritenuta non perfezionata neanche la fattispecie dell’aiuto al suicidio, in quanto Cappato non era in alcun modo intervenuto materialmente nel fatto tipico del suicidio, avendo semplicemente accompagnato DJ Fabo in Svizzera. In verità, quest’ultima motivazioni appare facilmente criticabile, in quanto esiste granitica giurisprudenza che afferma il suo esatto contrario, avendo riconosciuto integrata la fattispecie incriminatrice in commento anche in base ad una semplice condotta pre fatto (come nel caso in esame).

Ad ogni buon conto, la vicenda assume particolare rilevanza in quanto il dibattito giuridico, ma anche politico, si è spostato dalla tematica del diritto alla salute ex art. 32 della Costituzione, inteso come libera e informata scelta del trattamento terapeutico, al diritto di disponibilità della vita e, in particolare, se quest’ultimo possa essere bilanciato col il diritto alla dignità umana ex art. 2 della Costituzione.

L’interrogativo posto è stato se deve ammettersi che il diritto alla dignità umana possa prevalere sul diritto alla indisponibilità della vita – pacificamente ritenuto immanente nel nostro ordinamento giuridico – quando un soggetto viva in condizioni umanamente non tollerabili.

La prospettiva della vicenda in esame risulta essere del tutto nuova, poiché non si tratta di consentire o non consentire delle cure mediche, ma se una persona possa legittimamente compiere una condotta attiva suicidario, in modo diretto e non indirettamente mediante l’omissione delle cure sanitarie. Una risposta affermativa significherebbe riconoscere esistente, nel nostro ordinamento, un diritto immanente di disponibilità della vita ogni qual volta in cui essa non sia considerata più dignitosa dal suo diretto interessato.

È stato sostenuto che non si tratterebbe di riconoscere né un “diritto di morire” né un “diritto alla morte dignitosa”, quanto piuttosto un “diritto di ciascuno di decidere come e quando cessare la propria esistenza”.

Potrebbe prima facie apparire un semplice gioco di parole. Ma così non è. Tale ragionamento, più o meno condivisibile, infatti, risulta essere la risultante della massima valorizzazione – o esaltazione – dei principi costituzionali della libertà fondamentale (art. 13), dell’autodeterminazione e del consenso informato (art. 32) e del divieto di arbitraria ingerenza pubblica nella intima sfera delle scelte della vita privata (artt. 2 e 8 della Cedu, richiamati nel nostro ordinamento per il tramite dell’art. 117, Cost.).

La questione è stata sollevata innanzi la Corte Costituzionale, la quale, onde evitare una funzione creativa del diritto, in stridente contrasto con i principi democratici, pur non prendendo una puntuale posizione ed anzi auspicando un celere intervento da parte del Legislatore, ha comunque offerto interessanti spunti di riflessione.

6) La posizione della Corte Costituzionale in attesa dell’intervento del Legislatore.

Pur in attesa di una presa di pozione da parte del Legislatore, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 207 del 2018 prima, e con la sentenza n. 242 del 2019 poi, ha cercato di tracciare una linea direttrice.

La Corte Costituzionale ha affermato che “il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione di trattamenti sanitari, diventa irragionevole che quello stesso medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’interruzione dei presidi di sostegno vitale” (ordinanza n. 207/2018).

In considerazione di ciò, il divieto assoluto di aiuto al suicidio, di fatto, finirebbe col limitare irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate definitivamente a “liberarlo” dalle sofferenze.


Posto, pertanto, che se ricondotta entro una specifica cornice normativa la condotta di chi aiuti a morire non sia sempre punibile, la Corte arriva ad affermare che un ordinamento giuridico non debba rinunciare tout court alla possibilità che siano somministrati dei farmaci in grado di provocare entro un lasso di tempo la morte del paziente.

La soluzione, secondo la Corte, deve essere ricondotta nel novero della tematica della terapia del dolore, in quanto deve essere offerta al paziente la possibilità di uscire comunque dalla sofferenza mediante cure palliative.

In definitiva, la Corte, ritiene legittima la condotta di colui che presta il proprio aiuto al suicidio se ricondotta entro la cornice normativa della legge n. 219/2017, affidando alle strutture del servizio sanitario nazionale e al parere del comitato etico territorialmente competente ogni più opportuna valutazione del singolo caso concreto.

Di conseguenza, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 […], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” (sentenza n. 242/2019).

La soluzione offerta dalla Consulta, caratterizzata dalla mancanza di una disciplina ad hoc, è stata quella di “scaricare” sulle strutture sanitarie pubbliche e sui comitati di bioetica le decisioni da assumere nel caso concreto, con la conseguenza di future decisioni oscillanti, contraddittorie e confliggenti. Infatti, resta tutt’oggi aperta la questione relativa all’esito di eventuali casi futuri, non essendosi registrato alcun serio tentativo di affrontare il tema di una regolamentazione organica della materia fondato su di un serio e proficuo dialogo tra Legislatore e comunità scientifica.

Inoltre, pur ritenendo lecita la procedura del suicidio “assistito”, consentendo alla persona di procurarsi la morte “in modo autonomo”, secondo le condizioni sopra esposte, resta irrisolta, discriminandola ingiustamente, la questione della persona che non voglia o non possa – a causa della malattia totalmente invalidante – procedere da sola all’assunzione del farmaco suicidario.

È fondamentale che il Legislatore al più presto prenda una scelta nell’una o nell’altra direzione, affinché sia garantita la certezza del diritto e non la libera e facoltativa interpretazione, anche al fine di scongiurare il turismo sanitario.

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