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Servizi pubblici e libero mercato: Stato “imprenditore” o Stato “regolatore”?

Le privatizzazioni e le liberalizzazioni dei servizi pubblici. La costante tensione tra le politiche pro-concorrenziali e le politiche di riserva e regolazione.

Dagli anni ’80 dello scorso secolo al centro dell’agenda politica si è inserito il dogma del libero mercato, che ha visto la sua massima realizzazione negli anni ’90 con un massiccio programma di intervento normativo.

Il dogma del libero mercato, che trae origine dalla spinta dell’Unione europea, ha mostrato tutti i suoi limiti in particolar modo nei momenti più delicati di crisi economica e, in generale, ha mostrato tutti i suoi limiti per la connaturale incapacità del libero mercato di autogestirsi in maniera efficiente. Per questo motivo, nel corso degli anni, si è fatto largo il nuovo ruolo dello Stato che – per via delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni – da “imprenditore” è divenuto per lo più solamente “regolatore”.

Tuttavia, il moderno contesto storico, culturale e sociale ha inclinato le certezze raggiunte nel passato, anche in considerazione della crisi economica del 2008 e di quella in corso dovuta alla pandemia, tanto da aver condotto ad un cambio di mentalità che in concreto si è tradotto nell’adozione di un nuovo assetto politico-normativo che ha portato ad interrogarsi se non si sia verificato un ritorno “silenzioso” dello Stato imprenditore.

Sommario

1)  La difficile nozione di servizio pubblico.

2)  La potestà statale in materia di concorrenza e di garanzia delle prestazioni essenziali.

3)  Privatizzazioni, liberalizzazioni e concorrenza: mercato, fallimento e servizi pubblici essenziali.

4)  L’intervento dello Stato nell’economia: il difficile rapporto tra regolazione e concorrenza. In particolare, il mercato dei servizi a rete.

5)  Conclusioni. Serve una nuova politica industriale? La recente crisi economica globale e la riespansione della sfera pubblica: il peculiare caso di Cassa Depositi e Prestiti.

1) La difficile nozione di servizio pubblico.

La nozione di servizio pubblico è tra quelle più controverse dell’intero panorama del diritto amministrativo.


L’incertezza sul concetto di servizio pubblico trae origine da un quesito al quale ancora oggi non viene data univoca soluzione. Il primo e fondamentale quesito è: quali attività debbano essere considerate servizio pubblico?

Purtroppo, una puntuale definizione di servizio pubblico di carattere generale non è rintracciabile nel nostro ordinamento, né desumibile dalla Carta fondamentale o desumibile dalla normativa primaria e secondaria vigente. Per questo motivo resta tuttora fra le nozioni “più tormentate”.

Le ragioni principali di ciò sono riconducibili a molteplici fattori quali, tra l’altro, il progresso tecnologico, l’evoluzione politico-culturale e il grado di sviluppo socio-economico del Paese.

Difatti, la progressiva diversificazione e maggiore articolazione dei compiti che la Pubblica Amministrazione è chiamata ad assolvere, la molteplicità dei bisogni della collettività che questa deve soddisfare, l’eterogeneità dei servizi pubblici e delle modalità di gestione e di organizzazione costituiscono i punti cruciali sui quali dibatte, ancora oggi, l’intera comunità scientifica d’interesse.

Verso la fine del XIX secolo, con il progressivo avanzare del pluralismo e dello Stato sociale di diritto, unitamente all’evoluzione delle attribuzioni proprie della Pubblica Amministrazione, emergeva una nuova dimensione del rapporto fra Stato e cittadino, verso quella concezione oggi meglio nota come Stato-Comunità. Accanto alle tradizionali funzioni autoritative dello Stato, ove i rapporti con i cittadini sono caratterizzati da un rapporto di gerarchia e di subordinazione, come nelle materie della difesa, monetaria, di polizia, tributaria, di giustizia e, in generale, nella gestione della collettività, lo Stato iniziò ad intraprendere interventi anche in campo assistenziale, previdenziale, sanitario, nella fruizione dei beni culturali, nel campo dell’istruzione e ad assicura l’erogazione di servizi a tutti cittadini, al fine di garantire la piena realizzazione dell’individuo.

Così, oltre alla tradizionale funzione pubblica dello Stato, si fa largo l’idea che la miglior soddisfazione dell’interesse della collettività passi attraverso la realizzazione dei bisogni individuali, in quanto alla Pubblica Amministrazione viene riconosciuta una “doppia anima”: una di tipo pubblicistica, caratterizzata dall’agire autoritativo, l’altra invece di tipo più marcatamente sociale, finalizzata all’erogazione dei servizi alla collettività. Da qui la distinzione tra la funzione pubblica, ossia l’attività autoritativa dello Stato, nei riguardi della quale il privato si pone in via di subordinazione quale cittadino ed il servizio pubblico, ossia l’attività sociale – o di prestazione – nella quale il privato assume una posizione paritetica con lo Stato nella qualità di utente-consumatore.

Guardando al dettato della Carta costituzionale, il disposto che meglio incarna i tratti costitutivi dello Stato sociale, oltre che la mutata prospettiva dei rapporti tra Stato e cittadini, è rappresentato dall’art. 3, 2° comma, della Costituzione, laddove esprime il principio di uguaglianza sostanziale: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Dunque, è l’art. 3 della Costituzione a legittimare l’intervento dello Stato nel campo dei diritti sociali, privi di rilevanza economica, e a fondare l’intervento statale in campo economico, quale strumento di realizzazione dei diritti sociali e delle libertà fondamentali degli individui.

Senza addentrarci nelle diverse nozioni che la dottrina ha offerto, sinteticamente, secondo l’impostazione più accreditata, il servizio pubblico può essere definito quale l’insieme di quelle attività materiali che soddisfano le esigenze di una data collettività di individui (l’utenza), suscettibili di essere svolte in regime giuridico di diritto privato (dunque a carattere non autoritativo), la cui qualificazione “pubblica” deriva dalla sottoposizione a programmi e controlli del servizio da parte della Pubblica Amministrazione.

Pertanto, il servizio deve essere riconducibile all’opera di valutazione e di apprezzamento degli interessi della collettività operata dal soggetto pubblico e può essere erogato tanto da soggetti privati, quanto da soggetti pubblici. Tuttavia, ciò che conta veramente è che il servizio sia funzionalizzato alla soddisfazione di interessi della collettività e che l’apprezzamento di tali interessi da parte dell’ente pubblico abbia portato alla scelta autoritativa di garantirne l’erogazione tanto con la gestione diretta che con quella indiretta.

2) La potestà statale in materia di concorrenza e di garanzia delle prestazioni essenziali.

Gli articoli 41 e 43 della Costituzione della Repubblica italiana delineano un sistema economico di tipo misto, che legittima la presenza in economia sia dello Stato che degli attori privati.

Da un lato, infatti, la Carta fondamentale all’art. 43 prevede che i servizi pubblici essenziali possono essere assoggettati al regime del monopolio, attribuibile anche allo Stato o agli enti pubblici - “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” - e, dall’altro, all’art. 41, comma 3, dopo aver affermato al primo comma il principio della libera iniziativa economica privata, dispone che il soggetto pubblico al pari dei privati è legittimato ad intraprendere attività economiche pur non essendo riservate - “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.


Tali disposizioni devono essere lette unitamente all’art. 42, comma 1, Costituzione, che oltre a definire espressamente la proprietà come “pubblica o privata”, stabilisce che “i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”.

Centrale risulta la rilevanza dell’articolo 43, dal momento che legittima il trasferimento di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali allo Stato o a enti pubblici; ciò significa che certe attività sono da considerare servizi pubblici anche se non sono gestiti né dallo Stato, né da enti pubblici.

Queste norme che ammettono la presenza dello Stato in economia ma che al contempo tutelano in modo pieno e puntuale l’iniziativa economica privata, costituiscono i capi saldi di partenza per ogni tipologia di intervento dello Stato in economia.

Il trasferimento delle attività economiche dalla mano privata alla mano pubblica è previsto come possibile ma non certo necessario; inoltre, il trasferimento può avvenire anche a favore di comunità di lavoratori e di utenti, cioè a favore di organismi privati, a ulteriore riprova dell’esistenza di servizi pubblici che non per questo sono attratti nella sfera produttiva dello Stato, giacché, un dato servizio, pur a fronte della sua “essenzialità” e, quindi, del suo predicato “pubblico”, ben può essere erogato da soggetti privati.


Inoltre, il dettato costituzionale, in particolare all’art. 41, comma 3, Cost., consacra il principio tramite il quale l’attività economica privata possa essere funzionalizzata ed indirizzata, per legge, verso la cura di fini sociali, potendo, quest’ultimi, essere perseguiti indifferentemente mediante l’istituto della riserva o il trasferimento dell’attività in capo allo Stato, quanto essere realizzati dalla libera iniziativa economica privata, se il mercato risulta efficiente.

Pertanto, la consistenza pubblicistica del gestore o del fornitore del bene o del servizio non ha valore discriminante per la definizione di “servizio pubblico essenziale”. L’elemento caratterizzante tale definizione, difatti, è l’imposizione, da parte delle autorità pubbliche, di obblighi di servizio a favore dell’utenza prevedendo direttamente il contenuto della prestazione o indirettamente attraverso la previsione di sanzioni penali e/o amministrative.

Conformemente alla interpretazione dominante, quindi, la definizione di servizio pubblico passa attraverso la manifestazione della volontà, da parte dell’autorità pubblica, di quell’”atto essenziale” di offrire un determinato servizio all’utenza. E tale atto di assunzione viene adottato mediante una legge o un atto generale che costituisce la fonte del servizio pubblico, ossia il programma con cui si cerca di indirizzare e coordinare una data attività a fini pubblici.

Interpretate secondo questa chiave di lettura, le disposizioni costituzionali risultano assolutamente in linea con il nuovo approccio europeo che, tuttavia, appare più marcatamente accentuato ad un favor per l’iniziativa economica privata.

Gli artt. 41 e 43 della Costituzione rappresentano il fondamento e, al contempo, il limite dell’intervento dello Stato e della Pubblica Amministrazione nel suo complesso, nel campo dei servizi pubblici, assumendo quindi in contemporanea un significato sia garantista che interventista.

In ogni caso, il principio della concorrenza così espresso dagli articoli 41 e 43 postula l’esistenza di un mercato ove tutti gli operatori economici, compresi quelli pubblici, competano ad armi pari.

Tuttavia, la Carta costituzionale non si limita solamente a chiarire quali attività e prestazioni possano ascriversi nell’ambito della nozione di pubblico servizio (ossia le attività caratterizzate da un elevato tasso di carica sociale), ma offre altresì i principi fondamentali atti ad illuminare il momento propriamente gestorio del pubblico servizio.

Ecco, dunque, che la materia dei pubblici servizi si intreccia con il tema del riparto della potestà legislativa fra Stato e Regioni, con l’articolazione della potestà regolamentare e delle funzioni amministrative fra i differenti livelli di governo. Ma, il tema in esame risulta indissolubilmente connesso anche all’art. 118, comma 4, della Costituzione, laddove è espresso il principio di sussidiarietà “orizzontale”.

L’art. 118, comma 4, tutela tanto la libera iniziativa privata quanto la concorrenza, essendo chiaro nel tracciare la linea direttrice che ogni Pubblica Amministrazione deve perseguire, giacché l’erogazione del pubblico servizio “deve” essere rimessa alla libera ed autonoma iniziativa dei soggetti privati: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono [devono] l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, comma 4).

Parte della dottrina, offre una lettura in senso forte della disposizione in esame, in quanto afferma che la norma in commento “imponendo” a tutti gli Enti territoriali di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, non sembra conferire una mera facoltà, ma sancire un vero e proprio obbligo giuridico.

Pur volendo aderire ad una meno incisiva ed audace impostazione, la quale sostiene che il principio in parola non abbia una portata così dirompente, ma che sia espressione più semplicemente di un favor per l’autonoma iniziativa privata, e che quindi non imponga un vero e proprio “dovere di astensione laddove le forze individuali e della società siano in grado di soddisfare i propri bisogni autonomamente”, risulta certo che l’art. 118, comma 4, Cost. esprima “un dovere" di intervento dei pubblici poteri solo e solamente ove gli individui e le forze sociali non abbiano la capacità di provvedere da sé alle proprie necessità. Rimanendo in tutti gli altri casi, la “libera” iniziativa pubblicistica lasciata ad una scelta di opportunità politica.

La sussidiarietà rappresenta, pertanto, un’ulteriore manifestazione del principio personalistico già sancito dall’art. 2 della Costituzione, in quanto il “vincolo negativo” così gravante sui soggetti pubblici pare funzionale ad assicurare lo svolgimento della “personalità” dell’individuo “sia come singolo sia nelle formazioni sociali”. Invece, come “vincolo positivo” impone allo Stato e a tutti gli Enti territoriali di promuovere l’azione privata quale modalità preferibile di svolgimento delle “attività di interesse generale”. In entrambe le accezioni, risulta indubbio che le forme di intervento pubblico risultano conformi al principio ove si limitano ad essere meramente sussidiarie o suppletive dell’inidoneità dell’azione privata.

Ecco, quindi, che si profila, anche a livello costituzionale, quell’inevitabile e ineludibile permanente tensione che tormenta da secoli i più accreditati pensatori tra le istanze interventiste e negazioniste della mano pubblica.

Il principio di sussidiarietà in senso orizzontale trova pertanto il suo spazio applicativo nella materia quale elemento essenziale - in sede di esercizio del potere discrezionale - nella scelta delle modalità di gestione del servizio pubblico, al fine di realizzare un adeguato contemperamento di tutti gli interessi in gioco pubblici e privati.

La sottrazione di una determinata attività alla libera iniziativa economica in favore dello Stato e degli enti pubblici potrà trovare dunque giustificazione solo ove siano rispettate una pluralità di garanzie: la riserva di legge, la subordinazione dell’intervento ai fini della utilità sociale e che lo specifico oggetto delle attività sottoposte a riserva riguardi un servizio pubblico ritenuto essenziale (ossia di interesse generale).

Ove “non necessario”, pertanto, sarà compito della mano pubblica di promuovere e favorire non sola la libera iniziativa privata, ma la più ampia partecipazione possibile non intervenendo in alcun modo nel mercato o, al più, limitandosi ad una attività meramente regolatoria.

Per tale via, si manifesta appieno la neonata concezione dello Stato-comunità, una entità unica e prismatica dove il binomio pubblico-privato non è più concepito in termini antagonisti, ma di unione verso un unico fine comune: l’utilità sociale, che molto spesso si realizza semplicemente senza necessità di alcun tipo di intervento mediante la soddisfazione della sommatoria dei singoli interessi individuali.

Mentre il principio del mercato concorrenziale non postula ex se l’assenza di operatori economici pubblici, limitandosi ad imporre il superamento dei diritti speciali o esclusivi, ove non indispensabili per la realizzazione dell’interesse generale, il principio di sussidiarietà orizzontale “in senso stretto” offre una spinta contemporanea alla privatizzazione e liberalizzazione del mercato: non è sufficiente infatti l’eliminazione dei regimi dei servizi monopolistici od oligopolistici, ma è necessario che per lo svolgimento delle “attività di interesse generale” i poteri pubblici privilegino, ove possibile, “l’autonoma iniziativa dei cittadini”.

Ecco allora giunti, soprattutto grazie alla forte spinta degli ideali europei, all’attuale e moderna concezione del ruolo dello Stato in economia.

3) Privatizzazioni, liberalizzazioni e concorrenza: mercato, fallimento e servizi pubblici essenziali.

L’instaurazione di un mercato concorrenziale porta con sé l’idea della liberalizzazione e della privatizzazione dei servizi pubblici.

Difatti, il mercato in cui trova piena attuazione il principio concorrenziale risulta un mercato libero, ossia aperto a tutti gli operatori economici, pubblici e privati.

Ora, a questo punto della trattazione, dove il focus è il rapporto tra il pubblico e il privato nell’esercizio delle attività economiche, preme mettere in evidenza le differenze tra i concetti di liberalizzazione e di privatizzazione.

Perseguire politiche di liberalizzazione significa, in primo luogo, rimuovere gli ostacoli all’ingresso dei nuovi operatori nel mercato e, in secondo luogo, adottare misure regolatorie idonee ad assicurare l’apertura del mercato.

La privatizzazione, invece, comporta la dismissione dell’attività economica pubblica a favore dei soggetti privati.

Nel settore dei servizi pubblici, pertanto, il principio concorrenziale viene in rilievo in quanto postula il superamento di qualsivoglia assetto monopolistico che sia di tipo legale o naturale.

Si ha monopolio legale quando mediante un atto di riserva del potere politico si affida l’esercizio esclusivo di una determinata attività ad un solo operatore economico (usualmente pubblico), ai sensi dell’art. 43 della Costituzione. Mentre si configura un monopolio naturale, da cui discende di solito la proprietà pubblica delle reti e delle infrastrutture per non essere duplicabili, quando il numero ottimale di imprese presenti sul mercato è pari ad uno, e rappresenta il tipico fallimento del mercato nei servizi pubblici.


In tale ultima evenienza, non essendo possibile instaurare un mercato concorrenziale con molteplici operatori, si ritiene comunque sufficiente l’instaurazione di meccanismi competitivi di evidenza pubblica per la scelta (concorrenziale) del soggetto incaricato del pubblico servizio o, comunque, di effettuare politiche di c.d. “spacchettamento” (unbundling), ossia di promozione all’apertura del mercato nei segmenti potenzialmente concorrenziali (produzione, approvvigionamento e vendita), separandoli dalle attività strutturalmente monopolistiche, oppure separare le attività delle imprese multiservizi (quali a titolo esemplificativo gas e acqua o energia elettrica e gas), con la finalità di impedire o limitare la creazione di sussidi incrociati, che possono ostacolare l’entrata di nuovi concorrenti sul mercato di uno specifico servizio.

Nonostante tradizionalmente il settore dei servizi pubblici sia affetto da fallimento di mercato, a causa dei monopoli di fatto, naturali o legali oppure a causa degli oligopoli, una politica economica informata al “principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (art. 119 TFUE) comporta che gli operatori economici, pubblici e privati, possano competere in condizioni di parità, affinché operino contemporaneamente nella gestione del servizio soddisfacendo le esigenze dei cittadini (l’utenza).

Ecco allora che l’apertura ai meccanismi concorrenziali si configura sempre più spesso attraverso più o meno consistenti interventi correttivi dello Stato che si risolvono nella c.d. attività di regolazione che si vede sempre più attribuita alle Autorità amministrative indipendenti, dotate di poteri normativi, amministrativi e paragiurisdizionali.

Tuttavia, si ribadisce che la liberalizzazione ove non potesse essere realizzata in modo compiuto per la presenza di barriere ineliminabili come l’esistenza di monopoli naturali, è stata realizzata attraverso un meccanismo concorrenziale che fosse applicato non a monte, ma a valle. È questo il caso di tutti quei settori dove la non duplicabilità delle reti e degli impianti (quali i settori del gas, dell’energia elettrica, del servizio postale e ferroviario) ha comportato l’adozione dello schema della separazione della titolarità delle infrastrutture dalla titolarità del servizio a cui fanno seguito le procedure selettive di evidenza pubblica per il conferimento dello stesso.

Pertanto, il ruolo dello Stato si è ridotto per lo più a mero soggetto regolatore del corretto funzionamento del mercato ove non è consentito, o necessario, alcun meccanismo derogatorio del sistema concorrenziale. Tuttavia, permane un ruolo fortemente impositivo del potere statale di servizio pubblico laddove il mercato concorrenziale non sia idoneo a soddisfare i diritti sociali che devono essere garantiti al cittadino-utente.

4) L’intervento dello Stato nell’economia: il difficile rapporto tra regolazione e concorrenza. In particolare, il mercato dei servizi a rete.


Le politiche di liberalizzazione dei settori dei servizi pubblici implicano, certamente, in una prima fase “non già una riduzione bensì un potenziamento ed una più complessa articolazione degli interventi di regolazione dei pubblici poteri”.

Un mercato competitivo ed aperto, infatti, richiede un assetto di misure di regolazione più sofisticate e attente rispetto a quelle necessarie nei sistemi caratterizzati dai monopoli legali, avendo la storia messo in evidenza come il libero mercato non sia in grado di gestirsi autonomamente.

Dunque, un mercato concorrenziale, permeato dal riconoscimento della libertà di impresa, impone l’adozione di specifiche regolamentazioni per garantire la sicurezza e la continuità nell’erogazione del servizio, ma anche per conferire effettività ai principi di accessibilità economica e geografica, posti a salvaguardia dell’utenza.

Difatti, l’eliminazione di monopoli legali sui servizi non permette di per sé di superare la condizione ostativa al problema concorrenziale, posto che gli operatori ex monopolisti che permangono nel mercato risultano detentori di un rilevante potere competitivo, e questo si esplica in primis anche semplicemente attraverso la proprietà “indiretta” delle infrastrutture necessarie per l’erogazione del servizio.

Occorre, pertanto, la previsione di apposite misure di regolazione, perché non sono sufficienti i principi generali offerti dalla disciplina antitrust che, proprio per la sua generalità, non può che risultare mutilata.

Per questo motivo, tutte le normative di liberalizzazione dei vari mercati dei servizi pubblici compartano l’adozione di specifiche misure atte a promuovere una effettiva concorrenza fra i player, in quanto la sola soppressione dei diritti esclusivi e/o speciali non risulta sufficiente a dar vita ad un mercato realmente concorrenziale.

È opinione ormai condivisa che la crescita economica e, conseguentemente, della produttività di un’area geografica presuppone una rigorosa applicazione della disciplina della concorrenza e un altrettanto incisiva attività di tutela del consumatore.

È fondamentale rilevare che i settori strategici dell’energia, dei trasporti, del gas e delle telecomunicazioni costituiscono gli input essenziali per la quasi totalità delle attività economiche di ogni Paese. Pertanto, una produzione di tali servizi di qualità ed efficiente ha un impatto dirompente e cruciale non solo sulla competitività della comunità nazionale, ma anche sulle sue prospettive di sviluppo e di crescita. Le reti, infatti, sono indiscutibilmente un fattore di sviluppo locale –  per la loro capacità di aumentare l’efficienza di un sistema territoriale e di porlo in connessione con i contesti esterni – da leggersi, però, nella prospettiva europea e quindi anche come veicolo di circolazione e di affermazione di modelli produttivi e di modelli sociali nell’intero territorio comunitario.

Ogni sistema produttivo per essere competitivo necessita che gli oneri e i prezzi delle risorse essenziali (quali gas, elettricità, trasporti, e telecomunicazioni) e le qualità delle relative prestazioni siano efficienti ed accessibili a costi che siano il più basso possibile. Sfida impossibile da raggiungere in caso di una dotazione infrastrutturale deficitaria e di un assetto di regolazione inadeguato.

Quindi, posto che costituisce la regola che l’ex monopolista rimanga proprietario di larga parte dell’infrastruttura indispensabile per l’erogazione del servizio strategico essenziale, il Legislatore deve predisporre misure normative di regolazione da accompagnare all’eliminazione dei monopoli.

L’analisi economica ha evidenziato come nei monopoli naturali le decisioni imprenditoriali relative alle reti acquisiscono una dimensione “pubblica” perché non possono essere delegate puramente e semplicemente al mercato, ma necessitano di essere conformate al perseguimento di obiettivi collettivi.

Dunque, l’autorità pubblica si trova davanti ad una alternativa: mantenere direttamente l’infrastruttura in mano pubblica; oppure assegnare l’infrastruttura a un operatore privato e, conseguentemente, “regolarne” le sue decisioni.

La scelta tra le due modalità dipende da diversi fattori; tra questi, assume rilievo la specifica individuazione dei diversi obiettivi che deve porsi una “politica” infrastrutturale.

Infatti, le condizioni imparziali di accesso non esauriscono la schiera delle preoccupazioni che attengono al monopolio della rete. Risultano parimenti rilevanti le scelte strategiche di investimento infrastrutturale, soprattutto in un Paese caratterizzato, come quello italiano, da un notevole deficit infrastrutturale rispetto alla modernizzazione richiesta per essere al passo con l’evoluzione dei tempi. E allora sono sì necessari nuovi attori che allarghino l’offerta sul mercato, ma questo richiede, prima di tutto, una coraggiosa modifica strutturale del mercato che può realizzarsi solamente con un ampliamento della capacità di rete.

È con questa finalità che le politiche normative si sono concentrate sulla distinzione tra reti connotate dalla sussistenza di condizioni di monopolio naturale e la gestione del servizio. In questa prospettiva, si è potuto rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra le politiche di liberalizzazione e la realizzazione di una effettiva concorrenza nel mercato, includendo anche gli obiettivi di efficienza allocativa in direzione della tutela del consumatore.

Per neutralizzare le criticità connesse alla rete soggetta al monopolio naturale, l’azione normativa deve prevedere il diritto d’accesso quale strumento per garantirne l’utilizzazione da parte di più operatori. Per quanto concerne invece la gestione del servizio, una volta fissato il diritto di accesso, la scelta legislativa deve essere indirizzata nella previsione di livelli minimi di qualità e di prezzi accessibili in modo da rendere effettivo il principio della universalità.

Le infrastrutture a rete sono denominate “capitale sociale” in quanto:

1) costituiscono un forte fattore di sviluppo economico oltre che di coesione territoriale, sociale, economica e politica di una data collettività;

2) è assegnato allo Stato il ruolo di garante di un adeguato livello logistico, per questa ragione alle infrastrutture è riconosciuto un carattere intrinsecamente “essenziale”;

3) la necessità di una corretta localizzazione delle reti, infine, comporta l’inevitabile intervento dei pubblici poteri, perché le reti, per antonomasia, “non tollerano interruzioni” e, quindi, solo la forza pubblica è in grado di renderne coattivamente disponibili le aree e di gestirne le complesse problematiche legate alle esternalità.

Come è stato messo in evidenza, il fondamento della regolazione dell’accesso alle reti è insito nella loro natura di “essential facilities”, difatti, portano con sé un obbligo connaturale che impone al proprietario di concederne l'utilizzo a terzi a certe condizioni.

Mentre in alcuni settori il carattere di essential facilities delle reti risulta sicuramente ineliminabile e permanente, in altri può progressivamente attenuarsi o venire meno a causa dello sviluppo della domanda, dei processi di liberalizzazione e del progresso tecnologico. Di conseguenza, un modello regolatore ottimale dovrebbe non solo sempre evolvere di pari passo con i tempi, ma, se possibile, promuoverne il cambiamento in tale direzione.

Inoltre, le conseguenze dei processi di liberalizzazione possono essere molto diverse allorché riguardano mercati “ricchi” o mercati strutturalmente poveri”. Nel primo caso, l’effetto è di redistribuire alla collettività gli extra-profitti degli ex monopolisti; nel secondo, il rischio è di accrescerne le perdite a causa di fenomeni di cream skimming da parte dei nuovi entrati, ossia della c.d. scrematura del mercato. Infatti, quando le tariffe di un servizio sono regolate, può accadere che quelle praticate nei confronti di particolari gruppi di utenti comportino più elevati ricarichi (mark up) per l’impresa. I concorrenti che intendono entrare su un mercato si rivolgono pertanto a quei clienti che pagano prezzi alti (in relazione ai costi sostenuti). I nuovi concorrenti effettuano, dunque, una “scrematura” del mercato mantenendo sui vecchi l’onere dell’universalità dei servizi.

Il fenomeno appena citato mette in evidenza come non sia sempre facile individuare l’esatta perimetrazione degli effetti della regolazione e che questa sia finalizzata a governare fenomeni complessi e di non facile risoluzione. Quindi, le migliori politiche di regolazione variano in funzione di molteplici fattori: la struttura del mercato, il peculiare settore, l’evoluzione tecnologica a cui è soggetto il servizio considerato e, in generale, l’assetto istituzionale del singolo Paese con particolare riferimento alle sue capacità di adottare reali politiche pro-concorrenziali anche alla luce del grado di resistenza alle pressioni opposte dagli ex monopolisti.

5) Conclusioni. Serve una nuova politica industriale? La recente crisi economica globale e la riespansione della sfera pubblica: il peculiare caso di Cassa Depositi e Prestiti.

Il giudizio sulla reale efficacia delle misure di liberalizzazione adottate nel corso degli ultimi anni e, in particolar modo, sui risultati raggiunti sotto il profilo della qualità dei servizi erogati, sono alla base di una più ampia riflessione in materia di politica industriale, all’interno della quale inquadrare il fenomeno della competitività dei mercati nei servizi pubblici.

Le difficoltà incontrate nella crescita economica del Paese, unitamente alle inevitabili conseguenze della crisi globale, hanno imposto un ripensamento dei tradizionali strumenti di intervento pubblico che, probabilmente, con un eccesso di zelo favorito da una visione eccessivamente ideologica, ha contribuito a determinare una distorsione di concetti fondamentali, generando una confusione tra mercato e concorrenza da una parte, e impresa ed efficienza dall’altra.

La tendenza in questione ha condotto, nel corso degli ultimi anni, ad una visione del mercato quale strumento più efficace di governo dell’economia.

Tale orientamento si è concretizzato nella progressiva diminuzione del peso del ruolo pubblico nel tessuto industriale e nella riduzione della gestione diretta dei servizi infrastrutturali a favore di modelli più o meno formali di privatizzazione ovvero nell’introduzione di forme di concorrenza per il mercato per effetto di estese politiche di liberalizzazione.

Il graduale, sebbene non sempre coerente e lineare, processo di arretramento del pubblico nella gestione diretta di alcune tipologie di servizi considerati essenziali per la competitività e lo sviluppo del sistema economico, è avvenuto sul presupposto che la gestione centralizzata da parte delle autorità pubbliche generasse un elevato grado di inefficienza per la qualità del servizio reso agli utenti finali, sia in termini di maggiori tariffe che di livelli inferiori di qualità del servizio.

Quasi certamente, una valutazione sugli effetti delle politiche di liberalizzazione, al netto dei singoli contesti specificatamente considerati, porta a ritenere che i benefici che si sono realizzati sono stati molto inferiori rispetto alle aspettative; ciò è senza dubbio dipeso dalla difficoltà di creare un sistema di regole capace di contemperare le esigenze del mercato e gli interessi della collettività in un quadro di equilibrio del sistema economico nel suo complesso.


In un una società e in un contesto storico dove il processo di liberalizzazione risulta “incompiuto”, è inevitabile che lasciare al mercato e all’iniziativa economica privata il “peso” del finanziamento delle politiche infrastrutturali presenti l’evidente criticità della naturale propensione del mercato verso orizzonti temporali e obiettivi reddituali di breve periodo e, come tale fenomeno, confligga con l’adozione di uno strategico programma di investimenti infrastrutturali i cui ritorni economici non possono che misurarsi soltanto su un periodo di larga scala.

Questa dissonanza tra scelte strategiche di lungo corso e stringenti e immediati interessi imprenditoriali privati, ha contribuito a determinare ritardi nella dotazione e manutenzione delle infrastrutture di rete, nella loro gestione tecnica e nella regolazione giuridica ed amministrativa.

In taluni settori, infatti, gli investimenti sono stati esclusivamente rivolti verso quelle tecnologie considerate a bassa rischiosità economica o dove semplicemente vi era più domanda; comunque in generale gli investimenti, essendo finalizzati alla massimizzazione del profitto in un’ottica di breve termine, sono stati rivolti verso quei settori o quelle zone geografiche caratterizzate da un significativo margine di entrata (generando il c.d. effetto creamscrimming).

Tale fenomeno si pone in assoluto contrasto con una sana ed efficace politica industriale ed ha seriamente rischiato di pregiudicare irrimediabilmente gli obiettivi caratterizzanti la dogmatica dei servizi pubblici, in primis fra tutti i valori della qualità e dell’universalità del servizio.

Nel settore dei servizi di interesse economico generale, considerati come tali dalle autorità pubbliche, e dunque soggetti a specifici obblighi concernenti la promozione e la garanzia delle condizioni di offerta e fruibilità, non è in discussione la centralità dell’intervento pubblico, che trae infatti alimento dalla presenza dei cosiddetti market failures messi in luce dalla teoria economica. Ciò che è in discussione sono le forme da dare al rapporto tra intervento pubblico e mercato in modo da promuovere efficienza ed efficacia nell’erogazione dei servizi e, quindi, di come realizzare al meglio gli obiettivi pubblici.

La moderna economia della regolazione ha sì consegnato un quadro di nuovi strumenti finalizzati a sfrondare la pletora di regolazioni e di artificiose barriere all’entrata che proteggevano le vecchie posizioni di rendita e gli interessi costituiti, ha favorito la concorrenza e al tempo stesso previene il cristallizzarsi di nuove posizioni di rendita contrastando la tendenza spontanea degli incumbents a comportamenti anti-competitivi. Ma la regolazione ha mostrato tutti i suoi limiti: difatti, nell’attuale fase storica, la politica industriale sta tornando al centro dell’Agenda dei Governi come strumento per reagire alla crisi economica e per rilanciare il tessuto produttivo.


L’obiettivo dell’intervento pubblico è quello di “creare le condizioni del mercato idonee a ovviare alle deficienze del mercato stesso”.

È in questo contesto che deve essere inquadrata la crisi economica globale del 2008 e le reazioni dei Governi nazionali. La crisi finanziaria globale venne infatti affrontata dalle economie mondiali con una coordinazione senza precedenti: in particolare con aiuti di Stato e salvataggi di imprese così tanto vituperati nel corso degli ultimi quarant’anni.

Alcune di queste azioni comprendevano la ricapitalizzazione e, ove non bastasse, la nazionalizzazione di banche, assicurazioni, istituti finanziari e industriali. In poche parole, gli Stati divennero azionisti (e dunque proprietari) in tutto o in parte degli enti da risanare. Per non parlare poi, oggi, dell’ingente immissione di liquidità nei mercati grazie alle politiche pubbliche conseguenti alla pandemia mondiale del 2020.

Pertanto, l’intento dei governi nel 2008, così come nel 2020, sembra principalmente finalizzato a evitare che la crisi di liquidità potesse portare al fallimento delle banche e delle istituzioni finanziarie, onde evitare il collasso dell’intero sistema economico.

Le gravi crisi del 2008 e del 2020, propagatasi con virulenza nell’area dei principali Paesi industrializzati, hanno avuto - tra i vari effetti - quello di rimettere in forte discussione il ruolo dello Stato in campo economico e di porre al centro dell’attenzione l’impresa, l’economia reale e la politica industriale. Quest’ultima può essere definita come “l’insieme strutturato di interventi (policy, programmi e strumenti) deciso e organizzato dal soggetto pubblico, finalizzato ad influenzare il sistema industriale secondo direzioni, tempi ed entità diversi da quanto sarebbe avvenuto in assenza degli interventi stessi, per perseguire finalità di carattere micro, macro-economico e sociale”.

Il dibattito ha così oscillato tra una posizione in cui è lo Stato ad assumere un ruolo cruciale nello scegliere le priorità e i settori produttivi nei confronti dei quali adottare specifici interventi, e una posizione opposta in cui lo Stato, invece, deve limitarsi a garantire le condizioni di contesto in cui le imprese si trovano ad operare.

Un caso del tutto peculiare di sinergie pubbliche e private che ha introdotto un fattore del tutto nuovo nel contesto nazionale, è rappresentato da Cassa Depositi e Prestiti, una società per azioni con natura ibrida perché controllata per circa l'83% da parte del Ministero dell'economia e delle finanze e per circa il 16% da diverse fondazioni bancarie, che opera all'interno del sistema economico italiano essenzialmente come una banca di stato.

Queste forme unionali di pubblico e privato dimostrano come l’avanzata del privato necessiti di una forma di dirigismo pubblico per il raggiungimento di obiettivi di medio-lungo termine altrimenti non facilmente realizzabili se lasciati nelle sole prerogative delle istanze private, in quanto scoraggiate dall’idea di troppo allontanare nel tempo l’introito del profitto.

Cassa Depositi e Prestiti, infatti, impiega le sue risorse secondo la sua missione istituzionale a sostegno della crescita del Paese mediante una propria politica ed un puntuale piano industriale che definisce gli indirizzi di azione; è da sempre leader nel finanziamento degli investimenti della Pubblica Amministrazione e catalizzatore dello sviluppo delle infrastrutture; è operatore centrale a sostegno dell’economia e del sistema imprenditoriale nazionale; inoltre è azionista del Fondo Strategico Italiano che opera acquisendo quote di imprese di “rilevante interesse nazionale”.

L’effetto combinato di tali dinamiche ha reso difficile anche in Italia continuare a sostenere l’adeguatezza di un modello che si fondava sull’ideologica convinzione che i mercati sono capaci, in ogni circostanza, di autoregolarsi, e che assegnava allo Stato il compito (esclusivo) di creare le migliori condizioni affinché il mercato stesso potesse operare attraverso la definizione di buone regole e di “arbitri indipendenti” e la creazione o la promozione delle esternalità di sistema favorevoli alla crescita “spontanea” dell’economia. La crisi ha ampiamente mostrato che un sistema economico fondato esclusivamente su questi pilastri non è adatto a fronteggiare le sfide dell’economia globale. I Paesi che meglio hanno saputo fronteggiare la crisi, d’altronde, lo hanno fatto mettendo in campo politiche di rilancio degli investimenti pubblici, di forti stimoli all’economia, di ricapitalizzazione di imprese in difficoltà. Il privato da solo non riesce a soddisfare gli interessi di una società sempre più complessa e interconnessa, una qualche forma di dirigismo e di intervento pubblico risulta pertanto indispensabile.

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